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La compagnia dell'anello Trekking nella storia

Il salto del granatiere. Sentieri della Grande Guerra

Zona sacra dove nel 1916 combatterono e persero la vita più di seimila granatieri di Sardegna. In onore del loro coraggio e per la strenua lotta contro gli austriaci un sacrario ricorda il loro martirio. Il “salto del granatiere” ricorda la battaglia che si tenne tra il maggio e il giugno 1916.

Era tanti anni che volevo fare i sentieri della Grande Guerra e qualche giorno di vacanza a Posina in provincia di Vicenza è stata l’occasione giusta. Su consiglio del nostre oste, dopo la 52 gallerie del Pasubio, ci siamo spostati sull’Altopiano dei Sette Comuni (direzione Asiago) con obiettivo “il Salto del granatiere – Monte Cengio”.

Il Sentiero dà la possibilità, con un giro ad anello di poche ore e con poca fatica, di visitare uno dei posti più spettacolari e ricchi di storia della Prima Guerra Mondiale. Unica controindicazione è se si soffre di vertigini, nel qual caso lo sconsiglio fortemente, visto che la gran parte del cammino è su un sentiero scavato nella roccia e a picco sulla Valle dell’Astico e sulla retrostante pianura. Un panorama da togliere il fiato.

Ecomuseo della Grande Guerra

L’intero sentiero è diventato un museo a cielo aperto. Si incontrano infatti trincee, punti di avvistamenti, ricoveri d’occasione, gallerie scavate nella pietra, e una cappella e un sacrario per ricordare il coraggio dei Granatieri di Sardegna, la brigata che era posta a difesa del monte e che perse complessivamente, assieme ai fanti delle Brigate Catanzaro, Novara, Pescara e Modena, tra morti, dispersi e feriti, 10.264 uomini, quando l’esercito imperiale austriaco sferrò un imponente attacco nell’ambito della Strafexpedition, fra il 29 maggio e il 3 giugno 1916, data in cui si immolarono. 

Dove si parte

Il punto di partenza del sentiero è in corrispondenza del Piazzale “Principe del Piemonte” a quota 1286 m. dove si può posteggiare la macchina. Da qui si imbocca il sentiero a sinistra e si inizia ad entrare ed uscire dalle prime gallerie scavate nella roccia (meglio portarsi una torcia anche se non sono molto lunghe), lungo l’itinerario ci sono diversi punti informativi, si procede nel bosco per qualche minuto fino ad arrivare al punto più bello e incredibile si scende un breve scala ricavata nella roccia. Consiglio di scendere completamente e tralasciare l’altro sentiero in piano (che poi porterà alla cappella – ci si arriva dopo). Noi si continua a scendere fino a che non si inizia un sentiero a picco sull’altipiano che segue la montagna, qui si incontrano gallerie, postazioni di artiglieria e punti di avvistamento. Lo sguardo si perde tra le montagne intorno e la valle sottostante. Un brivido corre lungo la schiena a pensare alla guerra che si è combattuta qui quasi cento anni fa.

Il salto del granatiere

Il nome deriva dal triste episodio quando i Granatieri di Sardegna, ridotti allo stremo, disperati, in un furioso corpo a corpo con i soldati dell’esercito austro-ungarico, in molti si buttano giù, avvinghiati al nemico, dallo sperone di roccia che ora ricorda il loro sacrificio.

Le parole di un sopravvissuto: 

«Improvvisamente poi verso le 2 pomeridiane, il nemico ci assalì alle spalle e contemporaneamente anche di fronte, data la sorpresa e le condizioni disperate in cui ci trovavamo si svilupparono una serie di combattimenti singolari con bombe a mano e fucileria da parte del nemico e all’arma bianca da parte nostra… Fui testimone oculare di atti di eroismo dei miei granatieri, e di quelli della sezione mitragliatrici che si trovava immediatamente alla mia destra, di cui un caporal maggiore, servente continuò a far fuoco coll’arma fino a che fu ucciso a baionettate sul pezzo e così pure le vedette, sorprese dall’attacco furono finite a baionettate».

La statua realizzata con schegge di granate in omaggio ai granatieri eroi

Raggiunta la sommità a circa quota 1450 si trova un sacrario che ricorda il sacrificio e il coraggio di oltre diecimila uomini da qui si può prendere la strada militare che ci porterà fino alla chiesetta intitolata ai Granatieri di Sardegna poi velocemente al punti di partenza. 

Lungo tutto il percorso si possono fare breve digressioni seguendo le indicazioni e visitare, gallerie, trincee e punti di avvistamento.

In breve 

Lunghezza sentiero: 6 km circa tra andata e ritorno (anello)

Dislivello 300 m. (A/R)

Tempo percorrenza: 3/4 ore visitando tutto

Difficoltà: facile

Dal punto di partenza c’è un rifugio dove è possibile mangiare

Altre info

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Alla scoperta della Riserva Torbiere del Sebino

Per chi ama la natura e magari capita in Franciacorta – perché come me ha la passione delle bollicine – consiglio la visita alla Riserva Naturale Torbiere del Sebino, un posto unico e fuori dal tempo dove la natura segue un ritmo antico e prezioso

Siamo in provincia di Brescia, vicino al lago d’Iseo che gioca un ruolo fondamentale per questa riserva naturale. Fondata nel 1984 le Torbiere del Sebino sono un insieme di specchi d’acqua, piccoli boschi, canneti e prati, di fatto una delle zone umide più estese della Pianura Padana centrale e questo le rende particolarmente preziose perché la maggior parte delle paludi padane è stata prosciugata per far posto a coltivazioni e cemento, annullando di fatto uno degli ecosistemi più ricchi di vita presenti in Italia.

La visita

La visita consiste in una bella passeggiata, diversamente lunga. Ci sono due percorsi: quello completo che permette di visitarla per intero in circa due ore e mezzo / tre a seconda di quanto tempo si vuole dedicare ai diversi punti informativi. E il percorso più breve che dà modo di visitare alcuni dei punti più belli e panoramici. Noi abbiamo optato per la visita completa e ne è valsa la pena. 

I punti d’accesso sono tre (da Iseo, Cortefranca, Provaglio d’Iseo, che io consiglio visto che è dove siamo entrati noi, a ridosso del Castello, dove la segnaletica è completa e c’è anche un comodo posteggio. 

Cosa è una torbiera?

Prima della Visita alla Riserva per me la torba era quella cosa che regala ad alcuni whisky, soprattutto scozzesi, quel gusto di affumicato, come il famoso Lagavulin. 

Invece ho scoperto che a metà del 1800 la torba era molto preziosa da queste parti in quanto era il sostituto più economico di legna e carbone.  

“Il lavoro di estrazione della torba si svolgeva manualmente, utilizzando uno strumento affilato, detto “luccio” – si legge su uno degli spazi informativi lungo il sentiero –  Si estraevano dei parallelepipedi di torba di circa 15 cm per lato, che venivano poi tagliate a pezzi ed essiccate al sole. Si trattava prevalentemente di manodopera locale e il suo utilizzo favorì in maniera significativa lo sviluppo economico regionale, grazie al suo impiego in numerosi settori dell’industria, che all’epoca utilizzava le macchine a vapore: nelle filande e fornaci, negli opifici e per i treni della tratta Brescia-Iseo-Edolo. Il suo utilizzo cessò completamente intorno agli anni ’50 del ‘900”. 

L’importanza delle paludi per il nostro ecosistema

Ormai abituati a vivere in mezzo al cemento, la palude evoca in me l’immagine di zanzare giganti pronte a pungermi e succhiarmi il sangue senza sosta. Invece no. Non sono stata punta e sono sopravvissuta alla mattina nella palude senza punture di zanzare ( ho sofferto un po’ il caldo ma ad agosto non è così strano). Però ho potuto apprendere che se da un parte la bonifica delle tante aree paludosi nella Pianura padana ha rappresentato un’occasione di sviluppo e di riscatto per tanti uomini e tante donne, ciò ha causato anche una grave perdita di biodiversità.

Le paludi, infatti, svolgono funzioni fondamentali per l’equilibrio ecologico di tutto il territorio: controllano le inondazioni, effettuano un’efficace fitodepurazione delle acque trattenendo sostanze inquinanti sia organiche sia chimiche, bloccano la dispersione di anidride carbonica, talvolta in misura maggiore delle foreste, regolano il microclima. Da esse dipende la vita di specie di uccelli e altre specie animali e vegetali”.

Non ci sono più paludi

Dopo cento anni di “bonifiche” in tutta Europa sono scomparse il novanta per cento delle zone umide, per questo l’Unione Europea ha messo a punto una Strategia per la Biodiversità, che ha l’obiettivo di salvaguardare le zone umide.

Esse rappresentano un indispensabile rifugio per animali e vegetali che non potrebbero vivere in nessun altro luogo nel raggio di molti chilometri.

La Riserva Naturale del Sebino – si legge nella scheda che ci dà il benvenuto nel sito: è una zona umida di importanza internazionale, ospita decine di specie di uccelli migratori, che qui trovano rifugio e cibo durante i loro viaggi intercontinentali. Un esempio emblematico sono le rondini, senza le paludi, ricche di canneti e insetti, non sarebbero in grado di affrontare il lungo viaggio che le conduce dalle coste del nord Africa all’Europa continentale.

Prima di entrare ricordatevi di lasciare due euro, saranno investiti nella tutela di questo prezioso scrigno di biodiversità.

Buona visita!

Info: https://torbieresebino.it

Immancabile selfie!

Le foto sono di Ugo Roffi.

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Sulle tracce di Pellizza da Volpedo

Un borgo nella storia

Vale la pena venire a visitare questo piccolo borgo in provincia di Alessandra a due passi da Tortona, per il grande interesse storico culturale e per la sua semplice bellezza. Inserito tra i borghi d’eccellenza grazie ad un centro storico  ancora  perfettamente conservato, ma soprattutto perché qui visse e lavorò il pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) famoso per il quadro “il Quarto Stato” di cui una riproduzione in grande formato è situata in una delle piazze del paese. Da qui – grazie a 18 pannelli che riproducono altrettanti quadri, magnificamente contestualizzati – è possibile immergersi nelle atmosfere seguendo un itinerario che porta ad attraversare gran parte del paese invitandoci a guardarlo con l’occhio del pittore.

Il centro storico – mura

Il Quarto Stato in breve

Mi ha sempre affascinato questo quadro che ha un retroterra così importante e trovarcisi davanti proprio nei luoghi dove Pellizza dipingeva… – anche se è una riproduzione – beh è stato emozionante.

Realizzato tra il 1898 e il 1901 il quadro simbolo del proletariato che prende coscienza di sé e della sua forza venne subito apprezzato dalla stampa socialista che lo riproduce e lo utilizza per comunicare le istanze sociali e politiche dell’epoca ma nonostante gli sforzi del pittore viene esposto una sola volta a Roma nel 1907, nello stesso anno Pellizza si suiciderà. Nel 1920 il quadro viene acquistato per sottoscrizione pubblica ed esposto al Museo del Novecento di Milano. La fortuna del quadro crescerà nel tempo fino a diventare il simbolo della lotta di classe e della consapevolezza da parte del proletariato della necessità di lottare per i propri diritti civili e sociali.

Piazza Quarto Stato con la riproduzione del quadro – Foto Ugo Roffi

La genesi del Quarto Stato secondo Pellizza da Volpedo

«Tre anni or sono, io ero un socialista in buona fede: che vuoi? La miseria del proletariato mi commuoveva. Maturando le idee e pensando ai fatti di Milano [la repressione ordinata dal generale Bava Beccaris nel 1898], entrai invece in questa condizione che desidero esplicare con questo quadro: – I lavoratori sani, che ispirano una fermezza buona di carattere, dalla faccia robusta, dalla nerboruta persona, hanno essi pure il loro fatale andare. L’età dell’oro quando tutti, si narra, stavano molto bene, è però una bella età che si perde nel buio dei secoli e di cui il quadro accenna con un ragno di sole… Ma il lavoratore diventa, in seguito schiavo nell’età greco-romana, e tu vedi il cielo rannuvolarsi vedi poi una tetra nube incombere quasi sulla campagna, segno dell’età di mezzo, assai malagevole per il lavoratore: vedi poi quindi un sereno azzurro, simbolo de’ tempi che seguirono l’Ottantanove. La massa dei lavoratori che va via ingrossandosi procede serena, fiduciosa in un suo cammino nell’ora tarda del mattino, non ancora però sul meriggio: il meriggio verrà dopo per lei, in cui essa coglierà il frutto del suo lavoro, e, liberata dagli affari andrà a godere il bianco pane fragrante su la mensa apparecchiata. Il Quarto Stato poté essere quale io lo volli; un quadro sociale rappresentante il fatto più saliente dell’epoca nostra; l’avanzarsi fatale dei lavoratori…»

Il testo è tratto dal pannello espositivo sito in Piazza Quarto Stato a Volpedo

Il pescheto – Foto Ugo Roffi

Sentieri pellizziani

Nel 2011 l’Associazione Pellizza da Volpedo e il Comune di Volpedo in collaborazione con il CAI di Tortona e con l’Associazione Pietra Verde hanno realizzato due itinerari campestri ad anello (uno verde e uno rosso) sulle colline che circondano Volpedo che danno l’occasione di immergersi nelle atmosfere dei quadri del grande artista. 150 e 153 sono i numeri dei due itinerari entrambi ad anello che spesso si sovrappongono, soprattutto a causa della segnaletica che soprattutto una volta entrati nel bosco, tende a essere meno frequente. 

Inizio itinerario

Sulle colline tra i filari di pesche

Noi abbiamo scelto il 150 (itinerario rosso segnaletica CAI con cartellini a bande rosso -bianco-rosso) che parte dalla piazza Perino (piazza del Mercato della frutta) e si segue la segnaletica che porta fuori dal paese. Lungo il percorso si incontrano diverse riproduzioni di quadri di Pellizza, si segue la segnaletica fino ad abbandonare la strada asfaltata che va verso Pozzol Groppo per inoltrati lungo una strada campestre sopraelevata. Lontani dalle ultime case inizia a sentirsi il profumo della terra che è stata arata da poco, il paesaggio cambia, i colori si fanno più intensi, il marrone della terra, il verde dell’erba e il blu del cielo. E filari di alberi di pesche a centinaia, migliaia… e lì realizzi che è vero sei a Volpedo, famoso proprio per le pesche.

Panorama lungo il tragitto – Foto Ugo Roffi

A Volpedo, il trekking meglio in inverno

È vero pesche non ce ne è ma proprio la temperatura invernale (è il 19 febbraio) dà la possibilità di fare una bella escursione, quasi sempre esposta al sole e non troppo faticosa. Questi due itinerari mi sento di sconsigliarli in estate, visto che si sviluppano prevalentemente tra i campi da frutta e strade aperte.

Il piccolo borgo di Ca’ Barbieri in cime all’altopiano

Sentiero 150 o 153 questo è dilemma

Perdersi è difficile perché ci si riesce ad orientare abbastanza bene avendo quasi sempre la prospettiva del borgo. Pero devo dire che noi qualche difficoltà l’abbiamo avuta, infatti abbiamo seguito in parte il 150 e poi il 153… ne è venuto fuori un bellissimo trekking di quasi tre ore e mezza che rappresenta veramente un’immersione nei paesaggi pellizziani. Veniamo quindi all’itinerario così come l’abbiamo fatto noi.

L’escursione

Riprendiamo dal sentiero leggermente sopraelevato… si procede sempre dritti fino a quando inizia una salita dolce che procede fino ad arrivare ad un altopiano da qui si ammira un bel panorama, alle nostra spalle Volpedo, tutto intorno le colline del Monlealese. Si continua tenendo la sinistra, si scende leggermente fino ad arrivare al piccolissimo borgo di Ca’ Barbieri da poco restaurato dove si possono ammirare antiche abitazioni e casali. Arrivati qui si sbuca sulla strada asfaltata, si va verso destra, in questo punto si ritrova la segnaletica e si procede seguendo il 150 fino ad arrivare ad un bivio dove si abbandona la strada asfaltata e qui noi ci siamo persi. O meglio non trovando più la segnaletica del 150 ma solo 153 o 153 A abbiamo preso quest’ultimo svoltando quindi a destra e salendo leggermente. (Però a escursione finita e riguardando la mappa abbiamo pensato che forse , proprio in questo punto, se avessimo continuato ancora un po’ sulla strada asfaltata… forse avremmo ritrovato la segnaletica 150… ) Invece siamo entrati in un bosco che dallo stato della vegetazione non ci è sembrato molto frequentato, ci vuole quindi un pochino di spirito di avventura: si scavalca qualche albero caduto, ci si infila in qualche cespuglio… insomma niente di che… qua e là rispunta anche la segnaletica… sempre 153A si prosegue per un po nel bosco (circa un’oretta) fino ad incontrare un agriturismo e da qui inizia una lunga discesa su strada di cemento tra i campi e davanti a noi il borgo di Volpedo. Anello chiuso, con un po’ di avventura!

Uno dei pannelli espostivi lungo il percorso

Il ristoro

Visto che di pesche non se ne trovavano (se non sotto spirito) abbiamo deciso di spostarci qualche chilometro più avanti e a Tortona ci siamo consolati con un bel bicchiere di timorasso, vitigno eccezionale tipico della zona e una formaggetta di Montebore, eccellenza del tortonese. Entrambi consigliatissimi.

Campi – Foto Ugo Roffi

Itinerario provato il 20 febbraio 2023

Durata 3 ore mezza circa – Partenza e arrivo da Volpedo

Informazioni itinerario: link

Informazioni per visitare il borgo e il museo: link

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Nel cuore della Valle Pentemina

Trekking nella valle Pentemina tra boschi, borghi e antiche leggende

Tinello, uno dei borghi della Valle Pentemina – Foto Ugo Roffi

Isolata e un po’ dimenticata la Valle Pentemina non conquista al primo sguardo, ci vuole qualche ora per capirne la bellezza, la si deve attraversare e con calma guardarla dalle diverse prospettive mentre lentamente si sale e ci si addentra, nel silenzio delle montagne e dei pochi umani che la abitano.

Casolari lungo le valle

Negli anni ho raggiunto Pentema da diversi sentieri e cammini, mai da questa valle un po’ in disparte.

Siamo partiti, io e Ugo, – come al solito un po’ tardi – da Genova e dopo avere fatto la Doria Creto, raggiunto e attraversato Montoggio, quasi alla fine del paese si vede l’indicazione  per Gazzolo e ad un bivio si imbocca una strada stretta, noi dopo meno di un km o poco più abbiamo posteggiato, in realtà si può proseguire ancora e poi lasciare la macchina nel piccolo slargo/piazzetta del borgo.

foto Ugo Roffi

Il percorso inizia quando si lascia sulla sinistra l’ultima casa del piccolo nucleo, si prosegue ancora su asfalto fino a incontrare un ponte (Ponte nero) da qui si inizia a salire dolcemente ma costantemente. Piano piano ci si addentra nella valle, qua e là se si alza lo sguardo si vede qualche nucleo di case incastonato tra rocce e costoni… molte sono abbandonate, altre non si riesce a capire chi possa abitarci tanto dura sembra la vita lassù… qualche edificio invece è stato ristrutturato da poco. Guardare il mondo da questa valle silenziosa deve essere un’esperienza da provare!

Una leggenda narra che la valle, nei secoli scorsi, fosse frequentata da tipi poco raccomandabili, tra questi un bandito in fuga che trovò riparo a Pentema e siccome prima di morire si pentì… il paese divenne Pentema. Verità o leggenda chissà… ma in tanto si sale…

Dopo circa un’ora e mezzo si giunge a un bivio, la strada a sinistra porta alle frazioni di Vallecalda, Poggio e CaseVecchie a destra viene segnalata Pentema. Si segue per Pentema.

Dopo una brusca discesa si riprende a salire e dopo poco più di mezz’ora si raggiunge Serre di Pentema. Un tipico borgo del nostro Appennino: si entra scendendo una scalinata e si entra nel suo cuore fatto di antiche case contadine. Si alza lo sguardo e dall’altra parte c’è il resto della valle, qualche casa si intravede in lontananza, poi alberi e il sole delle due che nonostante sia gennaio scalda ancora.

Ugo sulla scalinata che entra in a Serre di Pentema

Incontriamo due signore che abitano in una casa lungo la strada – vengono nel week end – e ci raccontano che oltre loro c’è anche un’altra famiglia nei giorni festivi; un ragazzo ci vive anche durante la settimana… per il resto non c’è una gran folla!

Il borgo è un gioiellino, ci addentriamo per le strette vie e proviamo a immaginare com’era vivere lì nei secoli scorsi. Le signore ci consigliano di proseguire il cammino fino a raggiungere Tinello, l’altra frazione prima di Pentema.

Imbocchiamo un sentiero in paese e improvvisamente ci troviamo immersi nel bosco e nei muri a secco. Alcuni sono alti diversi metri e ancora in buono stato, altri crollati, persi tra la terra e le foglie ed è chiaro come questi muri delimitassero proprietà, recuperassero terreno prezioso per essere coltivato in un tempo che a noi sembra lontanissimo. 

Il sentiero nel bosco che arte da Serre

Dopo qualche passo si sbuca sul tracciato principale.

Tinello sembra un po’ il villaggio di Frodo, immerso nel verde dei suoi prati, piccolissimo, una manciata di case. È tutto chiuso, passiamo in una piazzetta, poi attraversiamo una porta antica, sembra quasi di entrare in casa di qualcuno. Un paese bellissimo nel suo isolamento. Vorremmo andare avanti, raggiungere Pentema, che vediamo in lontananza, ma ci vorrà ancora un’ora buona di strada.

Edificio a Tinello

Ci fermiamo perché tra una chiacchiera e l’altra non è che siamo andati troppo di buon passo. E ci resta tutta la strada del ritorno.

In conclusione si tratta di un trekking semplice ma lungo: per arrivare fino a Pentema ci vogliono tre ore buone e poi si deve tornare indietro. Anche se al ritorno è quasi tutta discesa. Ad ogni modo non ci sono grandi pendenze.

Si cammina per lo più su asfalto rovinato e su sterrato; soprattutto la parte iniziale della strada è su asfalto e devo dire che toglie un po’ di romanticismo… ma le macchine che passano sono poche. Se si è in vena di avventura e si ha una jeep si può pensare di arrivare almeno fino a Serra di Pentema in macchina, dopo la strada è veramente brutta, oltre che stretta. Il mio consiglio è farla a piedi!

Per quanto riguarda noi, per fare l’itinerario descritto ci abbiamo impiegato circa 4ore e 30 minuti; la previsione andata e ritorno fino a Pentema almeno sei ore.

La Valle Pentemina è nel comprensorio del Parco dell’Antola e si raggiunge o da Montoggio o da Torriglia. Noi siamo passati da Montoggio.

Molte info per trekking nella zona si possono trovare nella guida di Andrea Parodi e Alessio Schiavi: La catena dell’Angola, Andrea Parodi editore

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Stonehenge alla ligure

La meraviglia della natura e il mistero della storia si incontrano sulla Strada Megalitica anche conosciuta come la Stonehenge” del Beigua, un itinerario nel cuore della preistoria particolarmente interessante sia da un punto di vista storico che naturalistico.

Alcune pietre di dimensioni impressionanti lungo il tracciato

Siamo a pochi chilometri da Varazze – nel Parco Regionale del Beigua – e l’itinerario alla scoperta di queste antiche e maestose pietre parte dalla piazza di Alpicella (posteggio). Da qui si prosegue lungo via Ceresa (indicazioni: NTL), la strada oggi asfaltata taglia la costa del monte anticipando la vista del Monte Greppino e prosegue (almeno per 45 minuti) fino all’imbocco del sentiero vero e proprio che condurrà verso la Strada Megalitica. È un sentiero piuttosto semplice e adatto a tutti quello che dopo poco meno di un’ora conduce alla Stonehenge del Beigua (indicazione N).

Lungo il tracciato si incontrano moltissimi muri a secco, per lo più abbandonati e in decadenza ma che segnalano come l’area fosse un luogo antropizzato sin dall’antichità; ed è in un crescendo di bellezza e stupore che si entra passo dopo passo nella preistoria. 

Non c’è foto che tenga, una volta varcata la soglia l’incanto cattura l’occhio e anche il camminatore meno attento non può che rimanere senza fiato mentre cammina nella penombra del bosco lungo su un viale lastrico bordato da un filare di maestosi faggi e affiancato da possenti pareti di pietra. La parete nord è costituita da macigni ormai quasi completamente abbattuti, mentre la parete a valle è formata da una successione di pietre di diversa misura sino a costruire un muro continuo. 

Il percorso termina in corrispondenza di un cerchio di pietre fitte affiancate al cui centro si trova un masso orientato verso il Monte Greppino.

Foto Ugo Roffi

Lungo il tracciato si incontrano diversi cartelli informativi che suggeriscono come il percorso sia caratterizzato da elementi che fanno pensare alla cultura celtica e che presuppongono un uso dell’area per scopi rituali e religiosi.

Lungo il cammino si può fare una deviazione e in poco meno di trenta minuti si raggiunge il Monte Greppino (indicazione T), rilievo nudo e roccioso, famoso sin dall’antichità per la sua caratteristica di attirare i fulmini e per questo era ritenuto sacro. Da qui si gode un ottimo panorama, dal Monte Beigua alle spiagge del ponente ligure.

Panorama dal Monte Greppino – Foto Ugo Roffi

Il cammino può proseguire fino alla Cappelletta Faie dove si raggiunge con una larga carrareccia che scende dolcemente e ripercorre le tappe della Via Crucis e termina al bivio dove si trova la Cappelletta. Andando a destra (seguendo la strada asfaltata) si torna dopo più di un’ora ad Alpicella. In alternativa si ritorna sui propri passi ripercorrendo la strada megalitica e l’itinerario già fatto a ritroso.

Per effettuare il percorso si consiglia di visitare il sito del parco: www.parcobeigua.it

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Sulle tracce della ex Guidovia

Trekking verso il Santuario della Guardia alla scoperta di un pezzo di Genova industriale: la ex guidovia.

Pannelli informativi –

Di questi tempi farsi guardare con un occhio di riguardo dalla Madonna potrebbe avere i suoi risvolti positivi… non so se è un caso ma nell’ultimo anno sono capitata diverse volte sui sentieri che portano al Santuario della Guardia e nonostante ognuno abbia il suo fascino… il percorso della Guidovia mi è restato nel cuore.

Dalla Gaiazza, partenza. La truppa al completo!

Un po’ di storia 

Per gli appassionati di archeologia industriale – anche se in realtà di manufatti non ce ne sono più – è un must, anche perché la Guidovia è la prima e unica applicazione in Italia del brevetto dell’ingegnere Alberto Laviosa (1877-1959) che usava la trazione su gomma unendola alla guida su rotaia. Anche definito autoguidovia.

La Guidovia nasce da un fortunato connubio tra ingegno e devozione e diventa presto parte del paesaggio industriale che caratterizzava il ponente genovese, allora chiamata la Manchester d’Italia. 

Tracce della Guidovia lungo percorso

Già da fine Ottocento si parlava di quale mezzo fosse più adatto per raggiungere il Santuario mariano, ferrovia di montagna, ferrovia elettrica, un sistema misto di tram e funicolare, fino all’arrivo di Carlo Corazza, imprenditore e azionista delle Autovie Piacentine, che in segno di devozione dopo essere guarito da una malattia ai polmoni, decide di realizzare il sogno di molti pellegrini.

La guidovia 

I lavori iniziano nel 1924 e si concludo nel 1929 ma la tratta viene completata e inaugurata nel 1934. Si tratta di una linea a binario unico, lunga complessivamente 10.594 metri, con un dislivello di 704 metri ed una pendenza media del 66,5 per mille, massima dell’83 per mille. Partenza da Serro e in 45 minuti toccando varie stazioni si arrivava al Santuario, un viaggio lento, confortevole e panoramico che per 38 anni rappresentò una valida alternativa per pellegrini, lavoratori e turisti. In periodo di guerra veniva invece utilizzata per sfollare parte della città. Nel 1967 con l’arrivo della strada carrabile cadde in disuso e venne chiusa. La maggior parte del materiale rotabile è andato perduto fatta eccezione per la motrice n.1 che si trova al Museo dei Trasporti di Villa Fantasia sul Lago Maggiore.

giochi per bambini… e non solo

Fortunatamente nel 2006 in comune di Ceranesi ha recuperato la parte del tracciato che da Gaiazza arriva al Santuario e oggi è diventata una bella passeggiata adatta a tutti.

Il trekking 

Il percorso classico parte in localita Gaiazza dove è subito visibile l’arco con la scritta Guidovia e i pannelli informativi che ne raccontano la storia. Poco prima si incontra anche una trattoria dove vale la pena fermarsi, magari al ritorno della passeggiata per una merenda (la focaccia è ottima).

Noi invece siamo partiti da Pontedecimo, allungandola quindi di una quarantina di minuti. L’imbocco del sentiero è dietro il campo sportivo “Rinaldo Grondona”, alla sinistra si trova una scalinata di mattoni, si procede sempre in salita, si supera il viadotto ferroviario e si continua a salire, fino a raggiungere la strada asfaltata in località Case Marseno, si prosegue sulla destra rientrando nel verde, si raggiunge Case Zuccarello e si è di nuovo sulla strada asfaltata, qui si segue l’indicazione per Gaiazza che si raggiunge poco dopo.

panorama, quasi in vetta

Da qui il percorso per il Santuario è segnato molto bene, largo, adatto a tutti, non particolarmente faticoso, molto panoramico ed adatto in ogni stagione. Non ci sono grandi difficoltà, la salita ha una pendenza moderata ma si tratta comunque di quasi 7 km (da Gaiazza solo andata) e un po’ allenati bisogna esserlo, soprattutto se si vuole tornare indietro.

Il ritorno

Il mio consiglio è di tornare dalla stessa strada, noi abbiamo deciso di chiudere l’anello, perché avevamo letto di un sentiero che portava a Bolzaneto, non l’abbiamo trovato e siamo scesi passando “fuori strada”, per il bosco, andando un po’ a seguendo google map, un po’ a sentimento. Ma in taluni tratti era piuttosto impervio, per questo lo sconsiglio.

cappelletta votiva lungo il percorso

Durata percorso (solo andata): da Gaiazza 2,30- 3 ore da Pontedecimo circa un’ora in più

Lunghezza: da Pondecimo Km 9, da Gaiazza circa 7 solo andata

Difficolta: T (turistico) da Gaiazza E (escursionistico) da Pontedecimo

Per approfondire la storia della Guidovia: C’era una volta il futuro A cura di Giovanna Rosso del Brenna e Massimo Minella; Edizioni La Repubblica – Università di Genova, 2021

Arrivati 🙂 con Ugo Roffi

Percorso fatto il 26 dicembre 2019

Questo racconto vuole essere solo uno spunto, chi decidesse di cimentarsi in questo trekking è consigliabile verifichi informazioni più dettagliate sul percorso.

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I sentieri napoleonici del Beigua

Due sentieri tra storia e natura per riportare l’attenzione sulla straordinaria bellezza di questo parco ancora una volta sotto minaccia.

La chiamano la Montagna con vista mare e in effetti lo spettacolo da lassù e straordinario: lo sguardo va dalla riviera di levante e quella di ponente, le Alpi Liguri, la Pianura Padana, l’Appennino ligure e tosco-emiliano, le Alpi Apuane e in fine la Corsica. In una parola: l’immensità.

Ancora titanio

In questi giorni il Parco è tornato agli onori delle cronache, non per le sue bellezze, come sarebbe giusto, ma per l’ennesimo tentativo della CET, società mineraria con base a Cuneo, di avviare indagini finalizzate all’apertura di una miniera a cielo aperto per l’estrazione del rutilo (titanio). La vicenda va avanti da circa quarant’anni (chi volesse approfondire può leggere qui), ma mentre prima la Regione Liguria aveva sempre negato il permesso di estrazione, questa volta, uno zelante funzionario, come ultimo atto prima di andare in pensione, ha firmato il decreto che dà il via libera alla ricerca di titanio per tre anni in un’area appena fuori dal Parco, ma comunque tutelata. 

Sembra incredibile ma le cose stanno così. Le associazioni ambientaliste, insieme a cittadini e amministratori del territorio hanno lanciato subito una petizione (si può firmare qui) che ha raccolto 23.000 firme in dieci giorni. Regione Liguria, fin dall’inizio ha cercato di minimizzare, però ad oggi non ha ancora ritirato il decreto. 

Memorie napoleoniche

L’itinerario proposto vuole essere un’occasione per fare conoscere questo parco che non è solo ricco di biodiversità e bellezze naturali, ma custodisce anche preziose memorie del nostro passato. Su questa montagna francesi ed austriaci combatterono per 7 giorni dal 10 al 16 aprile 1800. Il massiccio del Beigua fu teatro di sanguinosi combattimenti e oggi è possibile rivivere la storia di quelle terribili giornate attraverso una serie di tavole disposte lungo i percorsi. .

Pannello esplicativo a Pian di Stella – Foto Ugo Roffi

L’itinerario giallo (versante padano) e quello rosso (versante marino) si possono fare singolarmente oppure si può scegliere – facendo un breve sentiero che li unisce – di fare un anello. Noi, essendo fatalmente attratti dagli anelli… ci siamo cimentati e abbiamo impiegato circa 3 ore e 30 minuti, pause escluse. Entrambi partono da Pian di Stella (m. 1220) poco sotto la vetta del Beigua.

Quando i due itinerari si incrociano

L’anello

Se si sceglie di percorrerli entrambi con l’anello, il mio consiglio è partire dall’itinerario giallo dove in breve tempo si raggiunge un altipiano panoramico: lo sguardo spazia tra la val padana e le maggiori cime piemontesi; si prosegue con un cammino semplice e piacevole e ben segnalato fino ad arrivare in un bosco, qui bisogna stare attenti a non perdere la strada, nonostante il sentiero sia sempre segnalato bene, noi abbiamo avuto qualche difficolta, quindi prestare attenzione. Poco dopo si incrocia il sentiero per Santa Giustina e in breve è possibile unirsi con l’altro itinerario, quello rosso. 

Lungo tutto il tragitto si incontrano tavole che segnalano punti di interesse naturalistico e storico. Emozionanti quelle che raccontano gli scontri e i combattimenti che ci furono tra francesi e austriachi. 

Si legge: “Il 12 aprile 1800 il contrattacco francese sul Beigua si infranse lungo i pendii di Monte Cavalli. Su questa forte posizione più di tremila soldati ungheresi resistettero al nemico sino al tramonto. Dal Monte Cavalli gli Imperiali scesero più volte rispondendo con le baionette agli assalti francesi”

Si chiude l’anello con una salita abbastanza dritta, ma breve (20 minuti), quando si torna al punto di partenza, a Pian di Stella, consiglio, se si è partiti dall’itinerario giallo di riprendere l’inizio del itinerario rosso in modo da fare visita anche al cippo 1 da dove si gode un panorama mozzafiato della Liguria. (Vanno aggiunti al percorso altri 30/40 minuti).

Naturalmente chi decidesse di cimentarsi in questo trekking, è meglio consulti prima il sito del Parco Beigua, completo di tutte le info. Questo racconto vuole essere solo uno spunto.

Partenza: per entrambi gli itinerari Pian di Stella, Parco Beigua

Durata: per l’anello 3 ore 30’’ 

Itinerario fatto nel inverno del 2019 e nella primavera del 2020.

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Trekking nella storia

Storie di carta

Viaggio nelle antiche cartiere di Genova che producevano la carta per i reali di Spagna e Inghilterra. Oggi quasi tutte abbandonate.

Le nostre città sono fatte di stratificazioni di storie, spesso legate alla morfologia del territorio, ancora rintracciabili nei manufatti che alcuni uomini hanno lasciato dietro di sé.

Arrivare a Biscaccia, frazione qualche chilometro sopra Voltri, vuol dire fare un viaggio nel tempo, quando le valli dei torrenti Leira, Cerusa e Acquasanta erano il luogo dove si realizzava una fra le carte più pregiate d’Europa, esportata in tutto il Mediterraneo grazie al facile accesso al porto di Voltri. Queste preziose filigrane venivano recapitate alle Corti di Inghilterra e Spagna, non stupisce quindi che nel 1770 le cartiere censite nelle tre vallate fossero oltre il centinaio. Oggi quelle ancora attive si contano sulle dita di una mano.

Cartiera abbandonata – Foto Ugo Roffi

Secondo alcuni atti notarili del 1424 è Grazioso di Damiano da Fabriano ad insegnare l’arte della lavorazione della carta nella zona. D’altronde la morfologia del territorio ricco di acqua in tutte le stagioni dell’anno e la posizione privilegiata, che da una parte vede lo sbocco al mare mentre dall’altra il passaggio verso il basso Piemonte, sono stati un ulteriore elemento che ha fatto sviluppare nei secoli la produzione della carta.

Foto Ugo Roffi

Il lavoro nella cartiera era svolto prevalentemente dal nucleo famigliare. L’edificio, era contemporaneamente luogo di lavoro e di riposo: suddiviso in più piani dove venivano svolte le diverse fasi delle lavorazione. La carta veniva lavorata al piano terra dove si trovavano delle vasche per i immergere i tessuti: questi erano  prima sminuzzati e lasciati marcire e resi poltiglia con l’utilizzo di punte di ferro o mazze azionate meccanicamente dall’acqua che muoveva all’esterno dell’edificio delle ruote. Dopo alcune lavorazioni l’impasto veniva messo in forme e lasciato sgocciolare e successivamente pressata e tagliata secondo il formato richiesto. Ancora umida la carta veniva portata all’ultimo piano in locali appositi, schermati da persiane orientabili in legno (rubatte) che permettevano una perfetta areazione della stanza e dove asciugandosi completava il processo. Ancora adesso se si guarda con attenzione è possibile vedere molti edifici che ancora mantengono le antiche persiane in legno, sempre all’ultimo piano.

Dettaglio finestra con le persiane per fare asciugare la carta – Foto Ugo Roffi

Nei primi anni del XIX secolo la concorrenza di altri paesi sancisce progressivamente la fine della produzione e inizia così il declino delle cartiere di Voltri; ad oggi delle oltre 100 cartiere restano aperte Barbarossa e San Giorgio nella Valle del Cerusa, mentre la ex cartiera Sbaraglia è ora la sede del Museo della Carta all’Acquasanta.

Tra le varie difficoltà va considerata la poca l’accessibilità di alcune strade. Praticamente tutte le cartiere dell’alta valle Leira sono chiuse oggi. L’ultima, Casalino, ha cessato l’attività cinque anni fa, quando hanno spostato la produzione a Predosa in Piemonte. La tipografia Gugliotta, ad esempio, è un complesso grande e imponente con una parte antica (probabilmente di oltre due secoli fa) che potrebbe essere restaurato e riconvertito in appartamenti, come in molti altri casi è stato fatto. Da vent’anni la famiglia Gugliotta ci prova, senza esito, per il momento.

Ci sono poi le cartiere della famiglia Caviglia (ne possedevano ben tre) queste seppur per la gran parte in stato di abbandono sono in alcune zone ancora abitate. E poi c’è la Arado, enorme edificio suddiviso in due parti, la cartiera vera e propria chiusa da oltre vent’anni era utilizzata fino a pochi anni fa dal quotidiano genovese Il Secolo XIX come deposito per vecchi computer e materiale vario, mentre la parte restaurata è suddivisa in appartamenti.

La cartiera utilizzata ancora qualche anno fa da Il Secolo XIX – Foto Ugo Roffi

Anche la Piccardo è abbandonata da oltre trent’anni, meno affascinante a livello architettonico forse anche perché abusiva. Qui ci lavoravano sette persone, racconta un vicino che per un breve tratto ci accompagna, poi hanno chiuso ma il suo rudere è rimasto. L’ultima quasi in cima alla valle è Calcagno, inattiva dagli anni ottanta, ma riconvertita in appartamenti dove attualmente vive ancora la stessa famiglia. Delle tre valli le più interessanti da visitare sono quelle dei torrenti Leira (le cartiere che si incontrano sono almeno nove) e dell’Acquasanta; in quest’ultima si trova anche il Museo della Carta, dove sono raccolti molti degli attrezzi originali e si può ripercorrere tutto il processo per la realizzazione della carta. Più stretta e tortuosa è invece la valle del Cerusa, la parte bassa ha diversi insediamenti industriali, molti edifici abbandonati, alcuni riconvertiti in abitazioni per poi chiudersi qualche chilometro più in su. Qui si trovano ancora due cartiere in attività: le cartiere Barbarossa e San Giorgio. 

Sono tante le storie che questi edifici nascondono tra le loro mura, un passato laborioso che ha contribuito a rendere Genova parte della storia del mondo. Nel tempo molti di questi edifici sono diventate abitazioni, lungo la strada è facile riconoscerli, altri giacciono invece abbandonati anche se decisamente ricchi del fascino di quell’archeologia industriale che ha caratterizzato i due secoli scorsi. 

L’articolo uscì nel 2018 su Popoffquotidiano

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Trekking nella storia

A Pannesi, sulla strada della Resa

Passeggiata nell’entroterra genovese tra storia e memorie del passato contadino.

Passare di qui è come fare un tuffo nella storia. Ne sentivo parlare da tempo, e finalmente grazie ad una amica, Patrizia Boero originaria di queste zone, sono riuscita ad andarci. 

Il nome, fortemente evocativo, fa subito intuire come questi luoghi siano stati teatro di eventi che cambiarono la storia della nostra città e non solo. Dobbiamo tornato indietro nel tempo, al 25 aprile del 1945 quando le forze nazifasciste della Riviera Ligure di Levante cercavano di ritirarsi verso la valle Padana attraverso la val Trebbia, e per fare ciò arrivarono fino al bosco della Tecosa, tra Uscio e Bargagli. Ma non sapevano che sulla loro strada avrebbero incontrato i partigiani della Divisione Cichero e della Brigata GL Matteotti, già attivi nella zona dal 1943. Erano settemila i nazifascisti in fuga e il 27 aprile 1945 furono catturati e si arresero alle forze partigiane.

La strada è anche famosa per un altro episodio storico: il 2 giugno del 1960 in occasione del raduno Anpi per celebrare la Resistenza, Umberto Terracini politico e antifascista, parlamentare, presidente dell’Assemblea Costituente e dirigente del Partito Comunista Italiano, pronunciò il famoso discorso contro la convocazione del Congresso del MSI a Genova. Con lui c’erano molti altri partigiani e antifascisti come Giordano Bruschi e Giulio Bana, partigiano e autore della lettera che ispirò i moti del 30 giugno 1960.

Cappelletta lungo il percorso

Il percorso inizia da Pannesi, (Lumarzo) si attraversa il piccolo parcheggio all’inizio del paese e si imbocca la stradina che dopo una serie di abitazioni entra nel bosco della Tecosa. “Una volta c’erano solo castagni in questo bosco – racconta Patrizia – era sempre pulito anche perché la castagna era un elemento essenziale nella dieta di chi viveva qui. Dopo la guerra il paese si è spopolato, e anche i boschi sono stati abbandonati”.

Appena si inizia a camminare si entra subito in un’altra dimensione, si guardano queste case e si immagina come poteva essere la vita settanta, ottanta anni fa… una vita semplice, povera e certamente faticosa; alcune case sono ancora abitate, altre sono in stato di abbandono, tra questa anche quella dove si arresero i nazifascisti.

Finite le case si incontra una cappelletta che ricorda i partigiani trucidati durante la Resistenza; da qui parte anche un sentiero che sale al Monte Bado, il percorso è segnato ma noi rimaniamo sulla nostra strada e continuano ancora per poco più di un’ora sempre nel bosco fino a raggiungere la targa che ricorda la Resa e incrocia la strada che porta a Sant’Alberto di Bargagli. 

La strada oggi asfaltata è poco utilizzata e adatta, appunto, per una passeggiata. Da Lumarzo alla targa ci vogliono circa due ore, solo per l’andata, ed il percorso è prevalentemente pianeggiante. 

Il percorso finisce (o inizia a seconda da dove si parte) incrociando la strada che porta a Sant’Alberto di Bargagli, dove nel 1995 è stata collocata la targa che ricorda l’evento del 27 aprile 1945.

Qui finisce il nostro viaggio nella storia.

Come arrivare: da Lumarzo passando o dalla statale 45 o dal Monte Fasce (Recco, Calcinara).