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La compagnia dell'anello

L’anello di Murta

Facile e non troppo impegnativo, si chiude se si resiste alla tentazione delle ottime trattorie lungo il percorso (lo dico per esperienza)

Si tratta di una sgambata veloce: una mezza giornata basta e avanza!

Si parte da Murta (o da Bolzaneto, noi siamo saliti in macchina fino alla chiesa di Murta dove abbiamo posteggiato, altrimenti ci arriva il bus 74, dove poi si tornerà dopo circa quattro ore, a seconda del passo e delle soste, noi (tre ore e mezzo).

Chiesa di Murta

Dalla chiesa si sale e si oltrepassa la Trattoria da Marietto (per fortuna era chiusa perché si mangia molto bene e la tentazione sarebbe stata forte) si prosegue sempre in salita fino a raggiungere l’ultima casa. Il percorso inizia a un bivio dove cartelli indicano la possibilità di raggiungere il Colle di Murta sia dal sentiero di sinistra che di destra. Consiglio quello di sinistra che parte in leggera salita e prosegue così per un’oretta, a tratti il sentiero è un po’ sconnesso, per questo è preferibile farlo in salita… 

L’Asosto di Bigiae

Dopo poco più di un’ora, si incontra uno strano monumento rurale: è l’Asósto di Bigiæ che grazie a una recente ristrutturazione è stato riportato al suo fascino originale dal CAI Bolzaneto. La forma è quella di un trullo, le sue origine sono incerte, ma si pensa che servisse da riparo per cacciatori e viandanti che avevano come meta il Santuario mariano.

Intorno il paesaggio brullo del primo entroterra, se si alza lo sguardo si incontra il santuario della Madonna della Guardia, si prosegue sempre lungo il sentiero fino a incrociare la strada che porta a Scarpino e poco dopo si raggiunge Colla di Murta. Si fa qualche metro sull’asfalto per poi tornare nel verde:  un cartello indica di proseguire e chiudere l’anello tornando dove si è partiti. Il tragitto è più breve circa un’ora e venti e piuttosto pianeggiante, il paesaggio è molto diverso, brullo all’inizio con pochi alberi poi si entra nel bosco e si scende piano piano fino alla Cavalla di Murta.

Se si ha tempo quando si è sull’asfalto, in localita Scarpino, si può proseguire ancora qualche minuto a piedi per raggiungere Lencisa, dove si può fare una pausa pranzo (notevole, ci sono due ristoranti che vale la pena provare) oppure si può proseguire, allungando decisamente il percorso, verso la Madonna della Guardia che si raggiunge in circa 40 minuti (una salita non male).

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Di vino e altre storie La compagnia dell'anello

La storia di Salvo Foti, che da uomo si è fatto vignero

Salvo Foti, enologo e viticoltore etneo ha ridato dignità a tanti braccianti agricoli rifondando “i Vigneri” consorzio che produce vino sul monte Etna. La sua storia in un libro.

Ho smesso di coltivare la terra e ho iniziato a coltivare gli uomini.

Salvo Foti

Si chiama viticoltura eroica, che i Liguri conoscono bene, ma sull’Etna bisogna considerare due variabili aggiuntive: il clima – meno clemente che nelle Cinque Terre – e la montagna, che in realtà è un vulcano!

“La montagna di fuoco” (Food editore) è il racconto appassionato di un viaggio che in quattro giorni porterà a Salvatore Foti – enologo e viticoltore etneo – insieme al suo amico “del nord”, a visitare i luoghi dove nascono e crescono il carricante, il nerello mascalese e il nerello cappuccio. Da Catania a Zafferana, dal Monte Ilice a Caselle, poi verso nord a Piedimonte Etneo, Castiglione di Sicilia, Bronte e per finire verso sud a Brancavilla, Adrano, Pedara e Nicosi, il territorio è costellato da migliaia di terrazze – “custeri” – in pietra lavica, fatte da neri muri di pietra costruiti a secco, che l’uomo è riuscito a strappare alla montagna. A volte coltivati, più spesso abbandonati. “Una volta” – racconta Foti – “il paesaggio agrario etneo era contraddistinto datanti appezzamenti, da case-cantina più o meni grandi a seconda se appartenevano a un contadino, a un borghese o a un nobile. Queste case dove si viveva e si lavorava la vite erano i palmenti”. 

Costruiti in pietra lavica veniva sfruttata la forza di gravità per le operazioni di vinificazione. Muri spessi anche più di un metro e interrati, garantivano la conservazione del prodotto finito. Qui il viticoltore –caso unico in tutta la Sicilia – era “possidente”, perché orgoglioso della sua terra e della sua uva. Eppure dopo quasi duemila anni di utilizzo, improvvisamente, una decina di anni fa, la Comunità Europea ne ha decretato la fine. L’incontro con la “signora di Caselle” che vive ancora nel suo palmento dove però le è stato proibito di fare il vino perché non rispetterebbe le leggi comunitarie, ci riporta ai nostri giorni. La montagna che a fatica l’uomo aveva trasformato per fare il vino, creando un paesaggio unico e magnifico, è sempre più spesso lottizzata, mentre le terrazze e le vigne abbandonate ricordano il dramma dell’emigrazione vissuto in Sicilia nel secolo scorso.  

Per una volta “turista” nella sua terra, lo sguardo di Foti coglie la bellezza di un mondo destinato a scomparire, perché non più sostenibile da un punto di vista di lavoro/profitto ma soprattutto perché non al passo con i tempi. Pochi resistono e continuano a coltivare la vite in modo tradizionale, ottenendo un vino prezioso “che rappresenta il territorio e la cultura degli uomini che lo producono”. 

In chiusura Foti, dopo avere affascinato il lettore con il racconto del passato e, per ultimo, avergli regalato un po’ di speranza per il presente, si accommiata da lui consegnandogli il futuro prossimo in poche struggenti righe: “Il padre di mio nonno era viticoltore, mio nonno era viticoltore, mio padre era viticoltore. Da quando sono nato faccio il viticoltore. Mio figlio no! Di lavorare le vigne non ne vuole sapere… ma chi lavorerà le vigne quando noi moriremo?”