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La compagnia dell'anello Trekking nella storia

I sentieri napoleonici del Beigua

Due sentieri tra storia e natura per riportare l’attenzione sulla straordinaria bellezza di questo parco ancora una volta sotto minaccia.

La chiamano la Montagna con vista mare e in effetti lo spettacolo da lassù e straordinario: lo sguardo va dalla riviera di levante e quella di ponente, le Alpi Liguri, la Pianura Padana, l’Appennino ligure e tosco-emiliano, le Alpi Apuane e in fine la Corsica. In una parola: l’immensità.

Ancora titanio

In questi giorni il Parco è tornato agli onori delle cronache, non per le sue bellezze, come sarebbe giusto, ma per l’ennesimo tentativo della CET, società mineraria con base a Cuneo, di avviare indagini finalizzate all’apertura di una miniera a cielo aperto per l’estrazione del rutilo (titanio). La vicenda va avanti da circa quarant’anni (chi volesse approfondire può leggere qui), ma mentre prima la Regione Liguria aveva sempre negato il permesso di estrazione, questa volta, uno zelante funzionario, come ultimo atto prima di andare in pensione, ha firmato il decreto che dà il via libera alla ricerca di titanio per tre anni in un’area appena fuori dal Parco, ma comunque tutelata. 

Sembra incredibile ma le cose stanno così. Le associazioni ambientaliste, insieme a cittadini e amministratori del territorio hanno lanciato subito una petizione (si può firmare qui) che ha raccolto 23.000 firme in dieci giorni. Regione Liguria, fin dall’inizio ha cercato di minimizzare, però ad oggi non ha ancora ritirato il decreto. 

Memorie napoleoniche

L’itinerario proposto vuole essere un’occasione per fare conoscere questo parco che non è solo ricco di biodiversità e bellezze naturali, ma custodisce anche preziose memorie del nostro passato. Su questa montagna francesi ed austriaci combatterono per 7 giorni dal 10 al 16 aprile 1800. Il massiccio del Beigua fu teatro di sanguinosi combattimenti e oggi è possibile rivivere la storia di quelle terribili giornate attraverso una serie di tavole disposte lungo i percorsi. .

Pannello esplicativo a Pian di Stella – Foto Ugo Roffi

L’itinerario giallo (versante padano) e quello rosso (versante marino) si possono fare singolarmente oppure si può scegliere – facendo un breve sentiero che li unisce – di fare un anello. Noi, essendo fatalmente attratti dagli anelli… ci siamo cimentati e abbiamo impiegato circa 3 ore e 30 minuti, pause escluse. Entrambi partono da Pian di Stella (m. 1220) poco sotto la vetta del Beigua.

Quando i due itinerari si incrociano

L’anello

Se si sceglie di percorrerli entrambi con l’anello, il mio consiglio è partire dall’itinerario giallo dove in breve tempo si raggiunge un altipiano panoramico: lo sguardo spazia tra la val padana e le maggiori cime piemontesi; si prosegue con un cammino semplice e piacevole e ben segnalato fino ad arrivare in un bosco, qui bisogna stare attenti a non perdere la strada, nonostante il sentiero sia sempre segnalato bene, noi abbiamo avuto qualche difficolta, quindi prestare attenzione. Poco dopo si incrocia il sentiero per Santa Giustina e in breve è possibile unirsi con l’altro itinerario, quello rosso. 

Lungo tutto il tragitto si incontrano tavole che segnalano punti di interesse naturalistico e storico. Emozionanti quelle che raccontano gli scontri e i combattimenti che ci furono tra francesi e austriachi. 

Si legge: “Il 12 aprile 1800 il contrattacco francese sul Beigua si infranse lungo i pendii di Monte Cavalli. Su questa forte posizione più di tremila soldati ungheresi resistettero al nemico sino al tramonto. Dal Monte Cavalli gli Imperiali scesero più volte rispondendo con le baionette agli assalti francesi”

Si chiude l’anello con una salita abbastanza dritta, ma breve (20 minuti), quando si torna al punto di partenza, a Pian di Stella, consiglio, se si è partiti dall’itinerario giallo di riprendere l’inizio del itinerario rosso in modo da fare visita anche al cippo 1 da dove si gode un panorama mozzafiato della Liguria. (Vanno aggiunti al percorso altri 30/40 minuti).

Naturalmente chi decidesse di cimentarsi in questo trekking, è meglio consulti prima il sito del Parco Beigua, completo di tutte le info. Questo racconto vuole essere solo uno spunto.

Partenza: per entrambi gli itinerari Pian di Stella, Parco Beigua

Durata: per l’anello 3 ore 30’’ 

Itinerario fatto nel inverno del 2019 e nella primavera del 2020.

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La compagnia dell'anello

L’anello di Murta

Facile e non troppo impegnativo, si chiude se si resiste alla tentazione delle ottime trattorie lungo il percorso (lo dico per esperienza)

Si tratta di una sgambata veloce: una mezza giornata basta e avanza!

Si parte da Murta (o da Bolzaneto, noi siamo saliti in macchina fino alla chiesa di Murta dove abbiamo posteggiato, altrimenti ci arriva il bus 74, dove poi si tornerà dopo circa quattro ore, a seconda del passo e delle soste, noi (tre ore e mezzo).

Chiesa di Murta

Dalla chiesa si sale e si oltrepassa la Trattoria da Marietto (per fortuna era chiusa perché si mangia molto bene e la tentazione sarebbe stata forte) si prosegue sempre in salita fino a raggiungere l’ultima casa. Il percorso inizia a un bivio dove cartelli indicano la possibilità di raggiungere il Colle di Murta sia dal sentiero di sinistra che di destra. Consiglio quello di sinistra che parte in leggera salita e prosegue così per un’oretta, a tratti il sentiero è un po’ sconnesso, per questo è preferibile farlo in salita… 

L’Asosto di Bigiae

Dopo poco più di un’ora, si incontra uno strano monumento rurale: è l’Asósto di Bigiæ che grazie a una recente ristrutturazione è stato riportato al suo fascino originale dal CAI Bolzaneto. La forma è quella di un trullo, le sue origine sono incerte, ma si pensa che servisse da riparo per cacciatori e viandanti che avevano come meta il Santuario mariano.

Intorno il paesaggio brullo del primo entroterra, se si alza lo sguardo si incontra il santuario della Madonna della Guardia, si prosegue sempre lungo il sentiero fino a incrociare la strada che porta a Scarpino e poco dopo si raggiunge Colla di Murta. Si fa qualche metro sull’asfalto per poi tornare nel verde:  un cartello indica di proseguire e chiudere l’anello tornando dove si è partiti. Il tragitto è più breve circa un’ora e venti e piuttosto pianeggiante, il paesaggio è molto diverso, brullo all’inizio con pochi alberi poi si entra nel bosco e si scende piano piano fino alla Cavalla di Murta.

Se si ha tempo quando si è sull’asfalto, in localita Scarpino, si può proseguire ancora qualche minuto a piedi per raggiungere Lencisa, dove si può fare una pausa pranzo (notevole, ci sono due ristoranti che vale la pena provare) oppure si può proseguire, allungando decisamente il percorso, verso la Madonna della Guardia che si raggiunge in circa 40 minuti (una salita non male).

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Di vino e altre storie

Slovenia, terra di vini ribelli

Il vino controrivoluzionario di Stanko Curin e le lunghe macerazioni di Movia. Due stili contrapposti per raccontare il vino sloveno.

Non prometteva niente di buono il giorno della partenza: pioveva ed eravamo in moto… e ha continuato a piovere per tutti i dieci giorni del viaggio. Ma organizzare questo viaggio è stato anche realizzare il sogno di conoscere le due anime vitivinicole della Slovenia, che guarda caso si trovano sui lati opposti geograficamente e non solo, di questo paese: Movia nel Collio sloveno e PraVino sul confine con l’Ungheria

Lago di Bled
Lago di Bled

Nonostante la Slovenia sia decisamente piccola: poco più di ventimila km quadrati, ha una buona varietà di vitigni che danno un’impronta unica ai vini prodotti. Questo è dovuto in parte al clima, al terreno, al vitigno e naturalmente alla mano e al gusto dell’uomo che il vino lo fa. I distretti vinicoli più vocati sono nella parte più a est Jeruzalem-Ljutomer, dove si producono fra i migliori bianchi del paese, la città più grande della regione è Maribor dove cresce la vite più vecchia del mondo. L’altra zona è quella vicina ai nostri confini, Primorska tra Istria, Carso (Kras), Collio (Goriska Brda) e la Valle del Vipava. 

Due produttori rappresentano, a mio avviso, l’anima vitivinicola di questo paese: Movia, ovvero Ales e Vesna Kristancic e Pra-vino ovvero Prapotnik Curin, nipote del grandissimo Stanko Curin. Incontrarli e degustare insieme a loro alcuni vini è un privilegio da condivedere!

Vigne a Jeruzalem

Le differenze tra i due non potrebbero essere più forti ed esasperate. Strabordante, magnetico, istrionico Ales /Movia, timido e introverso Curin. Entrambi però figli “legittimi” della loro terra: generosi, accoglienti e ognuno a proprio modo maestro nell’arte di fare il vino.

La famiglia Curin vive sul confine con l’Austria, a Kog. Stessa strada, marciapiede opposto si è già in terra straniera. Geograficamente i Curin si trovano in una delle zone più vocate per il vino: nel distretto di Prekmurje tra le colline di Maribor e Jeruzalem dove lo sguardo si perde tra filari e vigneti per chilometri…

La famiglia Curin produce vino da tre generazioni, ma fu il nonno Stanko a imprimere la svolta. “Erano gli anni del secondo dopoguerra e il partito comunista (la Slovenia faceva parte del blocco sovietico) imponeva a tutti i produttori di conferire il vino alla cantina sociale del paese, non si poteva fare diversamente”, racconta Propotnik ricordando il nonno. Ma Stanko credeva troppo nel suo vino e di nascosto iniziò a girare il paese vendendo una parte del vino imbottigliato autonomamente. “Insomma un controrivoluzionario”, direbbe qualcuno oggi. Stanko fu il primo a sfidare, all’epoca, il regime comunista e oggi il nipote continua a portare avanti la sua filosofia che è fatta di un vino che vuole essere il più integrato possibile con il territorio per riprodurne sapori e profumi. Unica deroga ammessa su alcuni prodotti un minore quantitativo di residuo di zucchero. “Abbiamo deciso così per venire incontro a quello che ormai è il gusto prevalente, le persone tendono a bere il vino pasteggiando e spesso un tasso un po’ più elevato di zucchero, come contengono alcuni dei nostri vini tradizionali, possono essere percepiti come fastidiosi”. 

Con Prapotnik Curin – Pra Vino

La degustazione inizia con un vino autoctono, il Sipon, che deve il suo nome a Napoleone, che dopo averlo assaggiato disse con entusiasmo: “c’est bon!” Un vino semplice ma molto interessante e duttile, il progetto per il futuro è di utilizzarlo in uvaggio con il Traminer per produrre uno spumante metodo classico. Lo Chardonnay è leggero e profumato mentre il Sauvignon ha le tipicità del vitigno con le caratteristiche del suolo dove cresce: molto profumato con un tocco di mineralità. Ma sono i vini semi-secchi che rappresentano lo stile di questa terra e devo dire che assaggiarli è stato un viaggio indimenticabile. In un crescendo Curin ha aperto Traminer, Moscato giallo( selezione 2012), Renski Riezling e  Laski Riezling 2008 il famoso Eiswein, vendemmiato durante tre notti di gelo a metà gennaio. Questi sono gli incredibili numeri: 190 gr di zucchero per 11vol. di alcol e 8,8 di acidità. Dal 2008 non sono più capitate tre notti freddissime, quelle che ci vogliono per ottenere il vino del ghiaccio! 

Prapotnik, che porta il nome del nonno, da cui il nome cantina “Pra-vino” ci ha salutato a fine pomeriggio con la promessa di venire in Italia per una degustazione. 

Quando ho deciso che sarei andata in Slovenia sapevo che il viaggio avrebbe dovuto comprendere la visita a Movia, nel Collio sloveno. L’appuntamento era stato fissato con largo anticipo con Vesna moglie e factotum di Ales. Con una puntualità svizzera all’ora giusta stavo già bussando alla porta: un uscio antico con su scritto Movia – che è il nome della famiglia – si apriva. Vesna mi dava il benvenuto in una casa con vista mozzafiato sul Collio, proprio sul confine come Pra-vino, ma a due passi dall’Italia.

Seduti in terrazza iniziamo a degustare i primi vini mentre Vesna racconta la storia della sua famiglia nell’attesa che Ales finisca di vendemmiare. L’opulenza nella rarefazione è già nel primo sorso di Ribolla 2011 (barrique non filtrato) poi Tokay–Gredic 2012 profumatissimo e ricco di frutto, poi l’aromaticità del Sauvignon 2012, e infine un Pinot grigio 2012 (10 giorni di macerazione e poi un anno in barrique). Poi un rosso: pinot nero 2008, acidità, frutti rossi e tannini. Un attimo di pausa dobbiamo riprenderci, sta per arrivare Ales. Entra e il palcoscenico è suo. Si muove con la consapevolezza che cattura ogni sguardo, ogni sua parola (parla italiano) è percepita come “verità”.

Seduti insieme a me ci sono due sommelier americane in viaggio studio e due romani, lì per comprare qualche bottiglia d’annata. Mentre vengono aperte due bottiglie formato Magnum di Puro e di Lunar Ales racconta la sua filosofia di vita. “Solo con il rispetto della terra e del nostro ecosistema si può ottenere un frutto perfetto che poi diventerà il vino che stiamo bevendo”. Su ogni ettaro di terreno al massimo ci sono 5/6000 piante, “non penso che più piante diano una migliore qualità, al contrario penso che ogni pianta deve trovare il suo spazio per potere crescere con passione”. Niente prodotti chimici, conservanti, erbicidi, solo lieviti naturali e nella fase della fermentazione il controllo della temperatura.

Tradizione e modernità sono le parole chiave che hanno fatto diventare Movia uno dei produttori sloveni più conosciuti al mondo. Il suo Puro è infatti uno degli spumanti più interessanti. “Abbiamo voluto regalare al consumatore il brivido del “degorgement”, della sboccatura”, il vino viene infatti imbottigliato con i suoi lieviti naturali che grazie alla loro permanenza in bottiglia gli garantiranno corpo, profumi e ricchezza fino al momento dell’assaggio. Certo l’apertura non è proprio una cosa semplice, e anche Ales ha qualche difficoltà nell’aprire la magnum che tra poco degusteremo. Ma il risultato finale ripaga di tutto. Le parole di commiato di Ales rivelano ancora una volta come per ottenere un grande vino ci vuole soprattutto una visione: “piantare una vite è una cosa importante perché lo fai per le prossime generazioni. Saranno loro, infatti, a raccogliere i frutti migliori. Per questo lo devi fare bene”.

Con Ales (Movia) in degustazione

Più vicini siamo alla natura migliore sarà il nostro vino.

L’articolo è stato pubblicato la prima volta su Popoffquotidiano nel marzo 2015.

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Di vino e altre storie

Alla scoperta del Timorasso

Viaggio nei colli tortonesi per raccontare (e degustare) un vino quasi perduto, oggi riscoperto, e chi lo produce. Da Daniele Ricci e Paolo Ghislandi.

Di quello che fino a trent’anni fa era considerato il triangolo industriale d’Italia, non è rimasto granché, le grandi fabbriche hanno lasciato posto a centri commerciali: Genova, Torino, Milano, sempre la stessa storia. Oggi, in piena crisi, l’unica risorsa rimasta è l’agroalimentare.

Accade così che la visione di un uomo possa rilanciare l’economia di un territorio, una piccola storia esemplare su quanto la tradizione e la qualità possano fare la differenza. Si tratta di Walter Massa, l’uomo che capì, anzitempo le potenzialità del Timorasso, vitigno praticamente sconosciuto che però non ha niente a che invidiare al più nobile cugino langarolo, il nebbiolo. 

Per assaggiarlo bisogna andare sui Colli tortonesi (provincia di Alessandria) che distano circa 70 km da Milano, 110 da Genova e altrettanto da Torino, al centro insomma di quello che fu il triangolo industriale! Ed in questo paesaggio ancora incontaminato che il Timorasso cresce e regala un vino sorprendente: scontroso al primo assaggio, ha bisogno di tempo per farsi conoscere, ma alla fine regala grandi emozioni.

Walter Massa ha vinto la scommessa. Nel 1987 nessuno ci credeva, ma lui, testardo, lo ha rimpiantato, lo ha fatto conoscere, fiera dopo fiera, e oggi guida un gruppo di viticoltori che vendono il loro vino in tutto il mondo. Poca quantità, alta qualità, la regola comune. 

Una visita al territorio è consigliata, soprattutto per capire il legame che c’è tra uomo e vino, per comprenderne il terroir, per dirla alla francese. 

Vigne di timorasso – Foto Ugo Roffi

“C’è voluta tutta la mia vita per arrivare fin qui, c’è voluto tutto l’amore che ho per questa terra per poter dire oggi: sono un vignaiolo!”. Daniele Ricci ha le idee chiare, la sua azienda nata nel lontano 1929 ha ricominciato a produrre Timorasso solo vent’anni fa, ed è da pochi anni che lui ha abbandonato il suo vecchio lavoro per dedicarsi completamente all’azienda di famiglia. Nel cuore dei colli orientali del Piemonte, a Costa Vescovato, Ricci fa un vino completamente biologico, che per prima cosa deve piacere a lui: “niente lieviti selezionati che rendono il vino tutto uguale; per prima cosa, il vino che faccio deve piacere a me – spiega Ricci – e deve raccontare questa terra fatta di marna bianca che poi invecchiando regala nel bicchiere mineralità e grande profondità”.

Sono vini longevi quello che si bevono da queste parti. Seduti al tavolo dell’agriturismo dell’azienda iniziamo ad assaggiare i vini: Timorasso 2013 (è il più giovane), profumi di fiori, agrumi, grande acidità e mineralità; si passa poi al Timorasso San Leto 2011, anche qui si trovano grandi profumi e grande mineralità ma tutto più intenso e profondo, eppure entrambi i vini hanno fatto solo acciaio! “D’altronde, racconta ancora Ricci, il lavoro è tutto in vigna, il vignaiolo è come il guardiano del faro, deve controllare che tutto proceda bene e poi una volta in cantina grande pulizia e controllo temperatura”. Il Timorasso Giallo di Costa 2011 lo beviamo a temperatura ambiente, come un rosso, ottenuto dopo una lunga macerazione delle bucce, “è quasi fuorilegge, proprio per la lunga macerazione, che arriva fino a dicembre”, è un vino che racconta questa terra “quello che mi rappresenta meglio”, un Orange wine che non ha niente da invidiare a vini più famosi con prezzi molto meno accessibili.

Il Timorasso San Leto 2009 è l’unico che vede un po’ di legno, per la precisione tonnot di acacia, che però non sovrasta in nessun modo il vitigno, conferisce solo una maggiore eleganza e morbidezza. Ma la sorpresa sono le 1000 bottiglie di un vino personale, unico, che ha riposato sottoterra dal 2007 al 2015 in bottiglie da un litro e mezzo ed è stato poi rimbottigliato e porta sull’etichetta le date di nascita della famiglia. “E’ stato un gesto emotivo farlo”, racconta Ricci mentre ne descrive la mineralità, ne individua i profumi e alla fine commosso dice che non lo rifarà più. 

E poi ci sono i rossi, barbera, nebbiolo, croatina (quest’ultimo non l’abbiamo assaggiato perché la bottiglia andava aperta tre ore prima) anche loro diritti, eleganti e schietti e un po’ severo come il vignaiolo che li ha fatti. 

dettaglio bottiglia Timorasso I Carpini 2018

Non potrebbe essere più diverso Paolo Ghislandi dell’azienda agricola I Carpini, esuberante, entusiasta e appassionato gira tra i filari raccontando, come fosse la prima volta che lo fa, la storia di questa terra. Lombardo, si trasferisce sui Colli Tortonesi con la famiglia nel 1998. “È stata una scelta di vita, avrei potuto fare altro ma mi sono innamorato di questa terra – racconta – prima di aprire la cantina ho aspettato qualche anno, ho voluto misurare scientificamente ogni aspetto, sentire la terra, capire l’anima di questo territorio”. Un approccio olistico, spiega, dove tutto quello che circonda la cascina contribuisce a creare il vino che verrà prodotto. Per questo Ghislandi controlla attentamente ogni passaggio in cantina, ma soprattutto ci tiene a mantenere un perfetto equilibrio con l’ambiente circostante. Anche i cinghiali che popolano il boschetto lungo il fianco della collina sono i benvenuti, ma a distanza: i filari che si snodano vicino al bosco sono di cabernet sauvignon, qualità un po’ pepata e per questo poco apprezzata dagli ungulati, che dopo averne assaggiato qualche chicco se ne allontanano.

Le vigne della cascina “I Carpini” si estendono nella frazione di San Lorenzo nel Comune di Pozzol Groppo, esposte a sud est affondano le radici in un terreno fresco e ben drenato arricchito dal passaggio di falde acquifere, “qui nasce l’acqua termale di Salice Terme” aggiunge Ghislandi; ecco spiegata la mineralità e la sapidità che poi si ritrova nel bicchiere! Ma tutto è curato per avere il minor impatto nell’ambiente, per salvaguardare la biodiversità del territorio, che è quella che poi protegge la vigna. In vigna non vengono utilizzati concimi, così come in cantina non si fa uso di lieviti selezionati, ma quello naturale che si trovano sulle bucce. “La fermentazione spontanea è una sinfonia di note – racconta – dove io mi limito a controllare agendo solo sulla temperatura”. Mentre Ghislandi parla ci guardiamo intorno e siamo circondati da un paesaggio rurale e incontaminato, un microcosmo che sopravvive tra le regioni più industrializzate del nord Italia: Emilia, Piemonte, Lombardia.

Anche la degustazione non è quello che ci si aspetta. La sfida davanti a cui ti pone Ghislandi è affrontare la vasca dove il vino sta riposando, pronto (quasi) per essere imbottigliato; te lo spilla in un bicchiere grande e poi lo suddivide tra i bicchieri dei commensali. Non ci sono fingimenti, quello che trovi nel bicchiere è quello che lui ha raccolto, lavorato, fermentato. Niente trucchi, facendosi beffa della legge del marketing e delle “regole” dell’accoglienza. E’ veramente sorprendente assaggiare vini ancora in fieri e sentirne già la piacevolezza, la mineralità, la sapidità, il frutto pieno e maturo. Rugiada del mattino 2013 e Brezza d’estate 2011 sono i due Timorasso assaggiati in vasca: quest’ultimo fa lunghi periodi di macerazione sulle bucce e viene imbottigliato dopo 5 anni.

Ghislandi li chiama “vini d’arte”, e non sbaglia! La tecnica, racconta, è lasciarli in vasca il più possibile e poi dimenticarli in bottiglia. Accade così di assaggiare spettacolari Timorassi del 2008 che ancora mantengono intatta tutta la loro freschezza e acidità o l’azzardo del Timorasso in anfora, infinito e sorprendente: un orange wine estremo e godibilissimo. O passando ai rossi le sperimentazioni fatte con le barbere e i cabernet sauvignon (non sono solo per i cinghiali) un mix di tradizione piemontese ed eleganza francese.

Le sorprese in queste terre di confine non mancano.

La degustazione che racconto è stata fatta nel 2016 ma la qualità è sempre la stessa anche oggi. Giusto qualche mese fa ho aperto una bottiglia dei I Carpini e vi ho trovato la stessa meraviglia che ha segnato questo primo incontro.

L’articolo è uscito la prima volta su Popoffquotidiano.

Per saperne di più, non resta che avventurarsi. Di seguito elenco e indirizzi dei produttori di timorasso.

http://www.timorasso.it/produttori.asp

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Trekking nella storia

Storie di carta

Viaggio nelle antiche cartiere di Genova che producevano la carta per i reali di Spagna e Inghilterra. Oggi quasi tutte abbandonate.

Le nostre città sono fatte di stratificazioni di storie, spesso legate alla morfologia del territorio, ancora rintracciabili nei manufatti che alcuni uomini hanno lasciato dietro di sé.

Arrivare a Biscaccia, frazione qualche chilometro sopra Voltri, vuol dire fare un viaggio nel tempo, quando le valli dei torrenti Leira, Cerusa e Acquasanta erano il luogo dove si realizzava una fra le carte più pregiate d’Europa, esportata in tutto il Mediterraneo grazie al facile accesso al porto di Voltri. Queste preziose filigrane venivano recapitate alle Corti di Inghilterra e Spagna, non stupisce quindi che nel 1770 le cartiere censite nelle tre vallate fossero oltre il centinaio. Oggi quelle ancora attive si contano sulle dita di una mano.

Cartiera abbandonata – Foto Ugo Roffi

Secondo alcuni atti notarili del 1424 è Grazioso di Damiano da Fabriano ad insegnare l’arte della lavorazione della carta nella zona. D’altronde la morfologia del territorio ricco di acqua in tutte le stagioni dell’anno e la posizione privilegiata, che da una parte vede lo sbocco al mare mentre dall’altra il passaggio verso il basso Piemonte, sono stati un ulteriore elemento che ha fatto sviluppare nei secoli la produzione della carta.

Foto Ugo Roffi

Il lavoro nella cartiera era svolto prevalentemente dal nucleo famigliare. L’edificio, era contemporaneamente luogo di lavoro e di riposo: suddiviso in più piani dove venivano svolte le diverse fasi delle lavorazione. La carta veniva lavorata al piano terra dove si trovavano delle vasche per i immergere i tessuti: questi erano  prima sminuzzati e lasciati marcire e resi poltiglia con l’utilizzo di punte di ferro o mazze azionate meccanicamente dall’acqua che muoveva all’esterno dell’edificio delle ruote. Dopo alcune lavorazioni l’impasto veniva messo in forme e lasciato sgocciolare e successivamente pressata e tagliata secondo il formato richiesto. Ancora umida la carta veniva portata all’ultimo piano in locali appositi, schermati da persiane orientabili in legno (rubatte) che permettevano una perfetta areazione della stanza e dove asciugandosi completava il processo. Ancora adesso se si guarda con attenzione è possibile vedere molti edifici che ancora mantengono le antiche persiane in legno, sempre all’ultimo piano.

Dettaglio finestra con le persiane per fare asciugare la carta – Foto Ugo Roffi

Nei primi anni del XIX secolo la concorrenza di altri paesi sancisce progressivamente la fine della produzione e inizia così il declino delle cartiere di Voltri; ad oggi delle oltre 100 cartiere restano aperte Barbarossa e San Giorgio nella Valle del Cerusa, mentre la ex cartiera Sbaraglia è ora la sede del Museo della Carta all’Acquasanta.

Tra le varie difficoltà va considerata la poca l’accessibilità di alcune strade. Praticamente tutte le cartiere dell’alta valle Leira sono chiuse oggi. L’ultima, Casalino, ha cessato l’attività cinque anni fa, quando hanno spostato la produzione a Predosa in Piemonte. La tipografia Gugliotta, ad esempio, è un complesso grande e imponente con una parte antica (probabilmente di oltre due secoli fa) che potrebbe essere restaurato e riconvertito in appartamenti, come in molti altri casi è stato fatto. Da vent’anni la famiglia Gugliotta ci prova, senza esito, per il momento.

Ci sono poi le cartiere della famiglia Caviglia (ne possedevano ben tre) queste seppur per la gran parte in stato di abbandono sono in alcune zone ancora abitate. E poi c’è la Arado, enorme edificio suddiviso in due parti, la cartiera vera e propria chiusa da oltre vent’anni era utilizzata fino a pochi anni fa dal quotidiano genovese Il Secolo XIX come deposito per vecchi computer e materiale vario, mentre la parte restaurata è suddivisa in appartamenti.

La cartiera utilizzata ancora qualche anno fa da Il Secolo XIX – Foto Ugo Roffi

Anche la Piccardo è abbandonata da oltre trent’anni, meno affascinante a livello architettonico forse anche perché abusiva. Qui ci lavoravano sette persone, racconta un vicino che per un breve tratto ci accompagna, poi hanno chiuso ma il suo rudere è rimasto. L’ultima quasi in cima alla valle è Calcagno, inattiva dagli anni ottanta, ma riconvertita in appartamenti dove attualmente vive ancora la stessa famiglia. Delle tre valli le più interessanti da visitare sono quelle dei torrenti Leira (le cartiere che si incontrano sono almeno nove) e dell’Acquasanta; in quest’ultima si trova anche il Museo della Carta, dove sono raccolti molti degli attrezzi originali e si può ripercorrere tutto il processo per la realizzazione della carta. Più stretta e tortuosa è invece la valle del Cerusa, la parte bassa ha diversi insediamenti industriali, molti edifici abbandonati, alcuni riconvertiti in abitazioni per poi chiudersi qualche chilometro più in su. Qui si trovano ancora due cartiere in attività: le cartiere Barbarossa e San Giorgio. 

Sono tante le storie che questi edifici nascondono tra le loro mura, un passato laborioso che ha contribuito a rendere Genova parte della storia del mondo. Nel tempo molti di questi edifici sono diventate abitazioni, lungo la strada è facile riconoscerli, altri giacciono invece abbandonati anche se decisamente ricchi del fascino di quell’archeologia industriale che ha caratterizzato i due secoli scorsi. 

L’articolo uscì nel 2018 su Popoffquotidiano

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Di vino e altre storie La compagnia dell'anello

La storia di Salvo Foti, che da uomo si è fatto vignero

Salvo Foti, enologo e viticoltore etneo ha ridato dignità a tanti braccianti agricoli rifondando “i Vigneri” consorzio che produce vino sul monte Etna. La sua storia in un libro.

Ho smesso di coltivare la terra e ho iniziato a coltivare gli uomini.

Salvo Foti

Si chiama viticoltura eroica, che i Liguri conoscono bene, ma sull’Etna bisogna considerare due variabili aggiuntive: il clima – meno clemente che nelle Cinque Terre – e la montagna, che in realtà è un vulcano!

“La montagna di fuoco” (Food editore) è il racconto appassionato di un viaggio che in quattro giorni porterà a Salvatore Foti – enologo e viticoltore etneo – insieme al suo amico “del nord”, a visitare i luoghi dove nascono e crescono il carricante, il nerello mascalese e il nerello cappuccio. Da Catania a Zafferana, dal Monte Ilice a Caselle, poi verso nord a Piedimonte Etneo, Castiglione di Sicilia, Bronte e per finire verso sud a Brancavilla, Adrano, Pedara e Nicosi, il territorio è costellato da migliaia di terrazze – “custeri” – in pietra lavica, fatte da neri muri di pietra costruiti a secco, che l’uomo è riuscito a strappare alla montagna. A volte coltivati, più spesso abbandonati. “Una volta” – racconta Foti – “il paesaggio agrario etneo era contraddistinto datanti appezzamenti, da case-cantina più o meni grandi a seconda se appartenevano a un contadino, a un borghese o a un nobile. Queste case dove si viveva e si lavorava la vite erano i palmenti”. 

Costruiti in pietra lavica veniva sfruttata la forza di gravità per le operazioni di vinificazione. Muri spessi anche più di un metro e interrati, garantivano la conservazione del prodotto finito. Qui il viticoltore –caso unico in tutta la Sicilia – era “possidente”, perché orgoglioso della sua terra e della sua uva. Eppure dopo quasi duemila anni di utilizzo, improvvisamente, una decina di anni fa, la Comunità Europea ne ha decretato la fine. L’incontro con la “signora di Caselle” che vive ancora nel suo palmento dove però le è stato proibito di fare il vino perché non rispetterebbe le leggi comunitarie, ci riporta ai nostri giorni. La montagna che a fatica l’uomo aveva trasformato per fare il vino, creando un paesaggio unico e magnifico, è sempre più spesso lottizzata, mentre le terrazze e le vigne abbandonate ricordano il dramma dell’emigrazione vissuto in Sicilia nel secolo scorso.  

Per una volta “turista” nella sua terra, lo sguardo di Foti coglie la bellezza di un mondo destinato a scomparire, perché non più sostenibile da un punto di vista di lavoro/profitto ma soprattutto perché non al passo con i tempi. Pochi resistono e continuano a coltivare la vite in modo tradizionale, ottenendo un vino prezioso “che rappresenta il territorio e la cultura degli uomini che lo producono”. 

In chiusura Foti, dopo avere affascinato il lettore con il racconto del passato e, per ultimo, avergli regalato un po’ di speranza per il presente, si accommiata da lui consegnandogli il futuro prossimo in poche struggenti righe: “Il padre di mio nonno era viticoltore, mio nonno era viticoltore, mio padre era viticoltore. Da quando sono nato faccio il viticoltore. Mio figlio no! Di lavorare le vigne non ne vuole sapere… ma chi lavorerà le vigne quando noi moriremo?”

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Trekking nella storia

A Pannesi, sulla strada della Resa

Passeggiata nell’entroterra genovese tra storia e memorie del passato contadino.

Passare di qui è come fare un tuffo nella storia. Ne sentivo parlare da tempo, e finalmente grazie ad una amica, Patrizia Boero originaria di queste zone, sono riuscita ad andarci. 

Il nome, fortemente evocativo, fa subito intuire come questi luoghi siano stati teatro di eventi che cambiarono la storia della nostra città e non solo. Dobbiamo tornato indietro nel tempo, al 25 aprile del 1945 quando le forze nazifasciste della Riviera Ligure di Levante cercavano di ritirarsi verso la valle Padana attraverso la val Trebbia, e per fare ciò arrivarono fino al bosco della Tecosa, tra Uscio e Bargagli. Ma non sapevano che sulla loro strada avrebbero incontrato i partigiani della Divisione Cichero e della Brigata GL Matteotti, già attivi nella zona dal 1943. Erano settemila i nazifascisti in fuga e il 27 aprile 1945 furono catturati e si arresero alle forze partigiane.

La strada è anche famosa per un altro episodio storico: il 2 giugno del 1960 in occasione del raduno Anpi per celebrare la Resistenza, Umberto Terracini politico e antifascista, parlamentare, presidente dell’Assemblea Costituente e dirigente del Partito Comunista Italiano, pronunciò il famoso discorso contro la convocazione del Congresso del MSI a Genova. Con lui c’erano molti altri partigiani e antifascisti come Giordano Bruschi e Giulio Bana, partigiano e autore della lettera che ispirò i moti del 30 giugno 1960.

Cappelletta lungo il percorso

Il percorso inizia da Pannesi, (Lumarzo) si attraversa il piccolo parcheggio all’inizio del paese e si imbocca la stradina che dopo una serie di abitazioni entra nel bosco della Tecosa. “Una volta c’erano solo castagni in questo bosco – racconta Patrizia – era sempre pulito anche perché la castagna era un elemento essenziale nella dieta di chi viveva qui. Dopo la guerra il paese si è spopolato, e anche i boschi sono stati abbandonati”.

Appena si inizia a camminare si entra subito in un’altra dimensione, si guardano queste case e si immagina come poteva essere la vita settanta, ottanta anni fa… una vita semplice, povera e certamente faticosa; alcune case sono ancora abitate, altre sono in stato di abbandono, tra questa anche quella dove si arresero i nazifascisti.

Finite le case si incontra una cappelletta che ricorda i partigiani trucidati durante la Resistenza; da qui parte anche un sentiero che sale al Monte Bado, il percorso è segnato ma noi rimaniamo sulla nostra strada e continuano ancora per poco più di un’ora sempre nel bosco fino a raggiungere la targa che ricorda la Resa e incrocia la strada che porta a Sant’Alberto di Bargagli. 

La strada oggi asfaltata è poco utilizzata e adatta, appunto, per una passeggiata. Da Lumarzo alla targa ci vogliono circa due ore, solo per l’andata, ed il percorso è prevalentemente pianeggiante. 

Il percorso finisce (o inizia a seconda da dove si parte) incrociando la strada che porta a Sant’Alberto di Bargagli, dove nel 1995 è stata collocata la targa che ricorda l’evento del 27 aprile 1945.

Qui finisce il nostro viaggio nella storia.

Come arrivare: da Lumarzo passando o dalla statale 45 o dal Monte Fasce (Recco, Calcinara).