Salvo Foti, enologo e viticoltore etneo ha ridato dignità a tanti braccianti agricoli rifondando “i Vigneri” consorzio che produce vino sul monte Etna. La sua storia in un libro.
Ho smesso di coltivare la terra e ho iniziato a coltivare gli uomini.
Salvo Foti
Si chiama viticoltura eroica, che i Liguri conoscono bene, ma sull’Etna bisogna considerare due variabili aggiuntive: il clima – meno clemente che nelle Cinque Terre – e la montagna, che in realtà è un vulcano!
“La montagna di fuoco” (Food editore) è il racconto appassionato di un viaggio che in quattro giorni porterà a Salvatore Foti – enologo e viticoltore etneo – insieme al suo amico “del nord”, a visitare i luoghi dove nascono e crescono il carricante, il nerello mascalese e il nerello cappuccio. Da Catania a Zafferana, dal Monte Ilice a Caselle, poi verso nord a Piedimonte Etneo, Castiglione di Sicilia, Bronte e per finire verso sud a Brancavilla, Adrano, Pedara e Nicosi, il territorio è costellato da migliaia di terrazze – “custeri” – in pietra lavica, fatte da neri muri di pietra costruiti a secco, che l’uomo è riuscito a strappare alla montagna. A volte coltivati, più spesso abbandonati. “Una volta” – racconta Foti – “il paesaggio agrario etneo era contraddistinto datanti appezzamenti, da case-cantina più o meni grandi a seconda se appartenevano a un contadino, a un borghese o a un nobile. Queste case dove si viveva e si lavorava la vite erano i palmenti”.
Costruiti in pietra lavica veniva sfruttata la forza di gravità per le operazioni di vinificazione. Muri spessi anche più di un metro e interrati, garantivano la conservazione del prodotto finito. Qui il viticoltore –caso unico in tutta la Sicilia – era “possidente”, perché orgoglioso della sua terra e della sua uva. Eppure dopo quasi duemila anni di utilizzo, improvvisamente, una decina di anni fa, la Comunità Europea ne ha decretato la fine. L’incontro con la “signora di Caselle” che vive ancora nel suo palmento dove però le è stato proibito di fare il vino perché non rispetterebbe le leggi comunitarie, ci riporta ai nostri giorni. La montagna che a fatica l’uomo aveva trasformato per fare il vino, creando un paesaggio unico e magnifico, è sempre più spesso lottizzata, mentre le terrazze e le vigne abbandonate ricordano il dramma dell’emigrazione vissuto in Sicilia nel secolo scorso.
Per una volta “turista” nella sua terra, lo sguardo di Foti coglie la bellezza di un mondo destinato a scomparire, perché non più sostenibile da un punto di vista di lavoro/profitto ma soprattutto perché non al passo con i tempi. Pochi resistono e continuano a coltivare la vite in modo tradizionale, ottenendo un vino prezioso “che rappresenta il territorio e la cultura degli uomini che lo producono”.
In chiusura Foti, dopo avere affascinato il lettore con il racconto del passato e, per ultimo, avergli regalato un po’ di speranza per il presente, si accommiata da lui consegnandogli il futuro prossimo in poche struggenti righe: “Il padre di mio nonno era viticoltore, mio nonno era viticoltore, mio padre era viticoltore. Da quando sono nato faccio il viticoltore. Mio figlio no! Di lavorare le vigne non ne vuole sapere… ma chi lavorerà le vigne quando noi moriremo?”